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Mungere (transitivo, dal latino múlgere) significava, non in
senso figurato, spremere le poppe di certi mammiferi quali la le mucche,
o, meglio, le vacche lattifere, le pecore e le capre per ricavarne il
latte ed era l’immancabile lavoro manuale in ogni fattoria fino all’avvento
delle prime macchine mungitrici elettriche, comparse dopo gli anni ’60
nelle stalle degli allevatori "a tempo pieno".
Ancora oggi, i
proprietari di qualche capo di bestiame, certamente non giovani, ma
persone che hanno passato la settantina, per lo più nelle zone di
montagna, perpetuano l’ancestrale usanza di mungere secondo
tradizione.
Normalmente una vacca in buona salute figliava una
volta all’anno (è così che prendevano esempio i nostri avi!),
perché si concedeva qualche mese di riposo dopo il
parto, infatti la gestazione durava 9 lune (guai a chi diceva 9 mesi,
erano le lune importanti!).
L’operazione,
alquanto delicata, veniva affidata al
responsabile della stalla, la
persona che sapeva meglio degli altri familiari
come trattare gli animali in generale, ma ancora
meglio la neo mamma, comprensibilmente più guardinga e suscettibile perché preoccupata per la salute del vitellino e gelosa
del proprio latte.
Dopo il parto, normalmente per una quindicina di
giorni, ci pensava il poppante a svuotare per 3 o 4 volte al
giorno la sgàrba (mammella della vacca
in dialetto bellunese) della mamma,
attaccandosi alternativamente ai tét (capezzoli)
sbattendo con la testa verso l’alto quando il
flusso del latte non era abbondante come desiderava.
Quand’anche fosse
stato più opportuno regolare il pasto dell’ingordo
vitellino mungendo a mano e facendolo poppare dal secchio
attraverso un capezzolo di lattice, la quantità residua non poteva essere usata per
fare formaggio o burro e nemmeno per berla, dato il
contenuto di sostanze ottimali al neonato,
ma tossiche per l’uomo.
Ai
maiali invece faceva solo bene: ecco dove finivano gli avanzi senza
sprecare nulla.
Passato il primo periodo, al vitello veniva somministrato latte in
polvere, potendo sfruttare così completamente quello
munto per cederlo alle latterie o per trasformarlo in casa.
Per alcuni mesi, periodo di alto rendimento, la
mungitura veniva fatta 3 volte al giorno, pressappoco alle 6 del
mattino, a mezzogiorno e alle 6 di sera; in seguito, con il
diminuire della quantità (che inizialmente poteva
passare i venti chilogrammi nelle
24 ore), si saltava quella delle 12.
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Naturalmente incideva anche l’alimentazione
della vacca e la stagione: con l’erba medica e il
trifoglio secchi, nelle stagioni tra ottobre e maggio, il latte
risultava più ricco di principi nutritivi, anche se le quantità
giornaliere erano minori, mentre con l’erba fresca l ’aumento della quantità corrispondeva
ad un calo della qualità. Pulita per
bene l’area sotto la mucca lattifera, il mungitore, dotato di sgabello
ad un solo piede quand’era giovane e di buon equilibrio), oppure
a tre piedi (all’avanzare dell’età), o,
ancora, una sedia in
miniatura con tanto di schienale (era un privilegio dei vecchi)
e di un mungitóio tenuto stretto tra le ginocchia (era
meglio non toccasse il pavimento), principiava la mungitura, ma prima
dell’operazione propriamente detta, occorreva preparare la sgàrba
e i tét attraverso due "interventi": primo, detergere
tutte le parti con acqua tiepida più volte per essere certi dell’igiene;
secondo, eseguire un delicato massaggio ai capezzoli fino oltre l’attaccatura
per stimolare le ghiandole e "canalizzare" il liquido Era qui
che si vedeva la maestria del mungitore: se la vacca fosse rimasta
tranquilla, il più sarebbe stato fatto. Infatti anche un bambino
avrebbe saputo riempire il secchio, bastava arcuare le dita a mo’ di
cilindro, avvolgere il capezzolo senza toccarlo, premere leggermente
contro la mammella come avrebbe fatto il vitellino con il muso, poi
stringere e accompagnare la pressione sino all’orifizio tirando con
delicatezza verso il basso (in tal modo si creava lo zampillo), quindi
riprendere il ciclo daccapo, con ambedue le mani.
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