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Molto prima, ma anche
dopo le due guerre, il popolo bellunese lasciava affetti e famiglia per
“incamminarsi” alla volta delle “Meriche” , della Svizzera o
della Germania.
Alcuni facevano fortuna e si costruivano una casa in patria, altri
invece tornavano “col carro della semola, miserabili e pidocchiosi”
(cioè senza il becco di un quattrino, tanto da dover mendicare un
passaggio sul carro del mugnaio).
Qualcuno rimaneva all’estero e formava una famiglia, qualche
altro ancora conduceva una vita dissoluta (tanto ciàpa e tanto magna)
o, peggio, incontrava dei guai anche con la giustizia (questi personaggi
venivano chiamati lingére) e, quando le forze venivano meno,
ritornavano a farsi accudire dalla moglie e dai famigliari, rimarcando i
propri diritti.
Tra i paesi europei
l’Italia fino agli anni ’50 era la più povera, la più agricola,
la più analfabeta tanto da creare il fenomeno dell’abbandono, specialmente
in certe regioni come Veneto, Abruzzo, Calabria.
Forse la meno nota, ma non per questo meno drammatica, era
l’emigrazione interna, spesso stagionale, delle balie e dei bambini:
le prime ad allattare i figli dei “signori” (ai propri poteva
bastare il latte di mucca scremato, molto scremato, altrimenti non si
poteva fare il burro da dare ai padroni!); i secondi a fare i
“servitori”, sempre presso le famiglie agiate del centro-nord.
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Racconta
Giacobbe (Kòbe)
Avevo 11 anni, la mia famiglia viveva in affitto in una casetta mezza diroccata
con i sassi delle pareti nudi e neri dalla caligine.
Giorno dopo giorno il cibo
(patate, zucche, verze) diminuiva. Fui mandato in Piemonte a servire presso una
grande fattoria. Mangiavo di più, ma mi mancavano tanto la mamma e mio fratello
e soffrivo tremendamente di nostalgia. Scrissi a casa chiedendo di farmi
ritornare, non m’importava di patire la fame.
Dopo un mese ricevetti una
lettera che mi diceva:“Giacobbe,
resisti ancora un po’, qui non c’è più nulla, anche la casa una notte è
crollata e tuo papà non ha più lavoro”. Mi rassegnai, ma piangevo tutti i
giorni.
Pensate che un bambino ancora più piccolo di me, mio compagno, un
giorno si arrampicò sino alla cima del pioppo più alto del podere e, con tutto
il fiato che aveva in corpo, si mise a chiamare“Mamma,
mamma” convinto che, da quell’altezza, ella potesse udirlo. Veniva dalle
montagne del Friuli.
Un
giorno arrivò una lettera. Vidi la “bacàna” (padrona) che mi si avvicina e
mi chiama:“Kòbe, Kòbe, ci sono notizie per te”. Contento, pensando finalmente di tornare a
casa, mi accorsi che la signora ha un viso scuro, poi notai che la busta che
teneva in mano non assomigliava alle altre, ma era contornata da un grosso bordo
nero.
L’aprii tremando:“Giacobbe,
sono tuo papà, devi rimanere ancora, perché la mamma è morta e…”. Non
lessi più il seguito e scappai nel fienile a piangere. Quando ci penso, anche
ora che ho quasi 90 anni, piango come allora.
Così
come allora Giacobbe non ce la fece a proseguire, inventò una scusa, “ordinò”
alla moglie, con una certa veemenza, di andare a prendere del vino rosso in
cantina e, zoppicando, voltò le spalle dirigendosi verso la legnaia borbottando
(o singhiozzando) "La
mamma, la mamma, non ho mai più visto la mia mamma!"
Racconta
Albino (Bino)
Dio … (una mezza bestemmia), qua non c’era nulla da fare, quel po’ di
terra e la mucca non bastavano a mantenere i due figli e la moglie, allora
partii per la “Sguizzera” (Svizzera) con alcuni “soci” (compagni) a
cercar fortuna.
Passata la dogana con grandi difficoltà (perquisizioni e visite
dei dottori), ci troviamo, dopo qualche giorno, insieme ad alcune decine di
morti di fame di ogni nazione, in un piccolo avvallamento sopra il quale un
omone vestito di nero, con un grande cappello ed un bastone in mano, assistito
da un giovane mingherlino munito di un quaderno e di un lapis, sceglieva coloro
che quel giorno sarebbero andati in galleria o a fare i muratori. |
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I meno robusti
restavano fuori e saltavano pasto e guadagno.
Alla
domenica si riposava, si lavava il vestiario, ci si trovava nelle baracche con i
paesani e, tra un bevuta ed una partita a carte, arrivava lunedì.
Chi era sceso
in paese tornava mogio mogio, sbattuto e con le tasche vuote: qualche
“ballerina” gli aveva prosciugato le energie ed il guadagno della settimana;
intanto a casa la famiglia attendeva invano l’aiuto per saldare il debito con
la bottega (il negozio di alimentari).
Racconta
il figlio di Ferdinando (Nando)
Mio padre partì molto giovane, agli inizi del secolo, per l’”Esempón”
(luoghi generici che iniziavano dalla Germania per finire ai confini con la
Russia, così chiamati storpiando il termine tedesco Eisenbahn, cioè ferrovia).
Diceva sempre con fierezza:
“Le strade ferrate della Transilvania le ho fatte
io!”.
Rimase più di vent’anni tra l’Ungheria e la Romania a lavorare nelle
miniere d’oro, poi tornò senza un soldo (con la Grande Guerra la Transilvania
“passò” alla Romania), mise su famiglia e trascorse la vecchiaia a parlare
dei bei tempi passati. |
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Invece
suo fratello Domenico (Méno), avendo già i figli, svernava a casa. Faceva l’Assistente
Contrario in una cava di pietre da costruzione (i cosiddetti bolognìn,
sassi lavorati e sagomati con lo scalpello, adatti alle testate d’angolo, ai
muretti delle case signorili, ai lavabi ecc.). Se ne andava al disgelo spingendo
una carriola con gli utensili da lavoro e pochi viveri (fagioli lessi) insieme
ad alcuni compagni e, attraverso il Brennero, giungeva dopo una decina di giorni
nel cuore della Germania. Prima
delle grandi nevicate faceva ritorno con la sua carriola appesantita da qualche
souvenir per i figli e per la moglie e con le tasche interne del panciotto ben
cucite per non perdere i frutti di un’intera stagione.
La
comitiva degli emigranti era più nutrita rispetto all’andata per far fronte
agli assalti dei ladri e dei briganti che contavano su un sostanzioso bottino.
Quasi
ogni anno, prima della nuova partenza, le mogli cambiavano lineamenti e umore
… il ventre principiava ad ingrossarsi! |