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Sogno una morte diversa
da quella di Piergiorgio Welby.
Preferirei di no.
Preferirei la fine del cugino Michele, una casa di provincia linda come
non è mai stata, una stanza da letto che sembra un sacrario di
specchiere e madie senza un grammo di polvere, le visite dei parenti e
degli amici che sono accolti nel tinello dalle donne di famiglia e
dai bambini, poi introdotti discretamente dal malato semicosciente che
subisce le loro carezze, un viso sofferente e rassegnato sfiorato dall’amore
al cospetto di lenzuola bianche come la luce del mattino d’estate, i
cateteri nascosti con pudore, e forse anche la foto del Papa, forse
anche un frate pieno di bonomia che mi sfruculia e mi dice che sono
sulla via del ritorno.
Il mio è un sogno laico, non credente, di chi non accetta la
banalizzazione della vita anche attraverso la serializzazione della
morte come sfida analgesica al significato del dolore.
Ed è anche un
sogno a cui non posso dire di saper corrispondere, quando la realtà si
metterà ad inseguirlo.
Penso anche che una società in cui si muore così come il cugino
Michele ha un rapporto più stretto e fiducioso con la verità,
qualunque essa sia, massima delle verità essendo quella che io agisco
da uomo libero ma non sono il mio padrone.
Chi sia il padrone, poi si vedrà faccia a faccia, ma ora, nell’enigma,so
di non esserlo io stesso. |
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Tuttavia capisco il
bisogno di requie, capisco il requiem laico di Welby e dei suoi
compagni, compreso il medico anestesista che su sua richiesta lo ha
sedato e ha staccato la spina.
Sono contrario all’eutanasia per legge, che è la sostanza del
problema dissimulata con grande e legittima abilità politica nella
campagna di cui Welby ha voluto essere il banditore, ma non posso
approvare l’obbligo di cura, che è una contraddizione in termini, e
non posso negare ad alcuno le terapie sedative della sofferenza fisica
quando la vita si esaurisce, per lo meno nel corpo.
Vorrei che la norma giuridica se ne stesse il più possibile
lontana dalla legalizzazione della morte, che ha già fatto progressi
abbastanza spettacolari con il trionfo culturale e la pratica
indiscriminata dell’aborto, con il protocollo di Groningen sull’eutanasia
dei bambini ammalati, con lo spegnimento coatto per sentenza comminato a
Terry Schiavo, con un disprezzo per il vicino che genera terrore senza
fine e impone la brutta e bronzea legge della guerra giusta in soccorso
del convivere.
Le uniche norme che accetto sono quelle a difesa della vita dal suo
inizio alla sua fine naturale, con la depenalizzazione dell’aborto
come eccezione assoluta e non come forma relativistica di controllo
della riproduzione o di contraccezione ex post.
Tuttavia considererei una sciagura un processo nato dal caso Welby, e
idiota il grido di "assassino" indirizzato a coloro che hanno
realizzato la sua volontà, amministrando il loro culto attraverso una
strana forma legale di disobbedienza civile.
Il culto radicale per le libertà civili, che ormai sistematicamente si
converte in battaglie religiose intorno all’idolo giacobino dei
diritti dell’uomo, compreso il diritto di ordinare la propria morte o
comminarla ad altri in nome della libertà di vivere come si vuole, io
lo combatto.
Ma se i radicali, nell’ambivalenza che è propria di ogni guerra
religiosa, si fanno scudo dell’orrore che non si può non provare per
la sola idea dell’obbligo di cura, abbasso la mia lancia.
Tra i radicali, per la sua e per la mia dignità, annovero anche
Welby.
Il cui gesto pubblico è ovviamente controverso.
Il cui bisogno privato
di riposo, imperativi della fede a parte, non lo è.
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